Sabato, 19 giugno 2004
Un soffio di vento accarezzava la pelle del viso, sollevava i capelli scompigliandoli, trasportava e mescolava tra loro diversi profumi, induceva ad una vibrazione continua le foglie degli alberi le quali, sfregandosi le une contro le altre, generavano un lieve fruscio. I raggi del Sole ora mai estivo di giugno a stento riuscivano a filtrare attraverso il susseguirsi di nuvole sottili spinte dal vento. Rifrangendosi contro le minuscole goccioline di rugiada adagiatesi sui fili d’erba creavano un pallido e sfumato luccichio, i petali dei fiori venivano appena intiepiditi, la luce del giorno appariva fioca e spenta come in un giorno d’autunno. A contrapporsi a questo cupo scenario c’erano i colori di primavera che assorbivano interamente quella flebile luce liberando tonalità calde e accese come il rosso scintillante delle rose, il bianco candido delle calle, il fucsia abbagliante di un’orchidea posata sul davanzale di una finestra, il verde brillante di un’edera arrampicatasi sulla parete di una casa in stile rustico, il giallo dello stelo delle margherite cresciute sul ciglio della strada.
Le immagini e sensazioni scorrevano una dopo l’altra come in un film: la bobina gira e trascina il nastro che, attraversato dalla luce del faro del proiettore, imprime su uno schermo bianco un insieme di fotogrammi che creano animazione e suoni. Immagini rese fluide e dinamiche e la cui prospettiva muta con il loro scorrimento e i rumori, sibili, fruscii che si scandiscono o sovrappongono.
Tutto ciò non era però frutto di una riproduzione virtuale e a girare non erano delle bobine.
Il movimento circolatorio era quello delle ruote: lungo la strada sterrata, il vibrante fruscio che ci accompagnava era prodotto dal loro passaggio, dai sassolini che ne subivano lo schiacciamento ed altri ancora che venivano smossi e scostati ai lati, andando così a formare un piccolo solco, una traccia.
La velocità era moderata e costante, ma improvvisamente percepii la precarietà dell’equilibrio, nel lasso di un brevissimo istante stava venendo a mancare e si concretizzò la sensazione di una imminente rovinosa caduta. Per recuperarlo fui costretto ad eseguire una manovra repentina e secca che nell’immediato fu istintivamente dettata dal bisogno di riprendere il controllo e che rese l’andatura vacillante, si generò per qualche secondo un oscillamento alternato prima a destra e poi a sinistra, poi andò stabilizzandosi nuovamente.
Fu un’emozione esplicita e spontanea espressa attraverso un gesto la causa di quegli attimi di perdita del controllo del mezzo. La compagna di escursione, dopo molto tempo, finalmente ritrovava e provava nuovamente quelle sensazioni e percezioni che una pedalata può offrire. Manifestò il suo entusiasmo e felicità, quasi alle stelle, staccando le mani dal manubrio posteriore del tandem, allargò completamente le braccia e con voce felice sorridente e un po’ bambina, quasi come fosse la prima volta, disse: “Che bello!”. Uno ad uno le riaffioravano nella mente i ricordi delle passeggiate spensierate in bicicletta, magari ai primi tepori di primavera, per fare una visita alle amiche, o per dare un tocco in più di romanticismo ai momenti trascorsi con qualche fidanzato, o unicamente per il semplice gusto di pedalare, o magari per andare a fare la spesa, o per altri contesti ancora.
Nuovamente all’aria aperta, gli odori, i colori, la brezza nei capelli e sul viso, le gambe che mulinano facendo girare i pedali, lo stare in equilibrio su due ruote, l’evitare le buche della strada, ascoltare il ronzio prodotto dall’attrito dei battistrada sull’asfalto, il calore del Sole seppur un po’ nascosto. Finalmente!
Non era sulla sua bicicletta e non era lei a guidare, ma le sensazioni provate rievocavano pienamente quelle dei tempi in cui passeggiava con la sua Holland rosa.
Con crescente frequenza, magari durante un pranzo o prendendo un aperitivo o conversando al telefono, menzionava il tandem: “Come mi piacerebbe fare un giro. È lì fermo in garage. Trovassi qualcuno che lo guida!”.
Seppe essere sufficientemente persuasiva.
Le condizioni metereologiche di quel sabato mattina condizionarono la nostra scelta, l’itinerario prevedeva un’escursione nella zona di Polcenigo seguendo il percorso della Livenza per giungere al laghetto del Gorgazzo. Optammo per Sacile e dintorni.
È una piccola cittadina il cui centro storico, sviluppatosi sulle rive della Livenza, è ben conservato e mostra chiese ed eleganti palazzi risalenti a diverse epoche, balconi e terrazzini con balaustre, sottoportici in colonnato, vie lastricate in ciottolato o pavè, ponticelli di attraversamento con muretti in mattone giallo o rosso, piccoli angoli di giardino in fiore. Appena fuori dal centro, proprio i giardini assumono un ruolo rilevante nell’immagine della città. Equilibrati nell’associazione di alberi piante e fiori, ben curati nei dettagli, forme dinamiche per le aiuole e siepi la cui altezza assicura una certa discrezione senza negare la possibilità di una sbirciatina alla facciata della villetta, sono presenti in quasi tutte le abitazioni e trovano un senso di continuità anche grazie ai viali alberati. Oltre al fascino ed alla bellezza di una giusta armonia raggiunta tra urbanizzazione e verde, il visitatore sensibile e attento può percepire un senso di aggraziata e calorosa accoglienza come anche di piacevole tranquillità e parziale quiete addentrandosi in centro. Difatti, fatta le debite eccezioni per alcune piccole zone e il tratto attraversato dalla statale Pontebbana, non si riscontra in Sacile il caos del traffico o l’inquinamento acustico e ambientale come in altre realtà che presentano analogie di densità territoriale e demografica.
Usciti dalla cittadina, anche la periferia e le frazioni conservano un aspetto curato ed aggraziato. La meta oggetto della nostra scampagnata era la località di Vistorta, a circa sette od otto chilometri, un piccolo paesino di campagna al confine con il Veneto.
Lungo una strada alberata di salici piangenti e fiancheggiata da un fossato abbiamo individuato una villa con ampio giardino appartenente ad una famiglia di origine nobile, conti, e tutt’attorno estesi vigneti. Imboccata una strada sterrata le colture si diversificavano: mais, grano, soia, tuberi, pioppeti, frutteti e, cosa ora mai rara, campi di medica. Ad un tratto ci fu una certa attrazione per un viale in terra battuta con una linea di ciuffi d’erba proprio al centro, fiancheggiata da un filare di olmi in ambo i lati, posta tra due campi coltivati proprio a medica e che pareva terminasse in un boschetto. Quel piccolo contesto ambientale conservato integro e naturale, proiettava improvvisamente l’immaginazione ad un’epoca diversa, di fine ‘800 inizi ‘900, quando le donne indossavano abiti lunghi, preparavano il burro in casa, i contadini lavoravano nei campi o si occupavano della mungitura, i cavalli trainavano i calessi, l’erba veniva falciata e fatta essiccare fino a diventare fieno ed altre attività che oggi forse si conoscono solo attraverso i racconti dei nonni o i libri scritti da qualche nostalgico.
Uno ad uno ci lasciavamo alle spalle gli olmi e lentamente si apriva un altro scenario davanti a noi. Si intravvedeva il muro di pietra di una casa colonica a tre piani, con la porta di ingresso e gli scuretti delle finestre in legno logorati dal tempo, dalle piogge, dal freddo e dal sole rovente delle estati: la superficie legnosa si mostrava ruvida rigata e spigolosa. Solo le pietre parevano non essere state neppure scalfite, ancora lisce e bianche.
Di fronte alla casa, a circa venti metri, posta in senso trasversale si affacciava la stalla, anche essa in pietra, la cui loggia era caratterizzata da tre archi in mattone a vista oltre i quali si accedeva al ricovero per il bestiame, mentre il piano superiore era adibito a fienile. Immediatamente dietro alla stalla si trovava una piccola rimessa per gli attrezzi agricoli. Tutto attorno alle costruzioni c’era prato e alberi.
Sul retro della casa un piccolo ponte permetteva l’attraversamento di un ruscello per accedere ai vigneti. Sotto il ponte si udiva un continuo scroscio, quasi assordante, provocato da una cascata: i filamenti d’acqua con impeto cadevano giù facendo un salto di quasi mezzo metro, sbattendo e mescolandosi con l’acqua nella parte più bassa dove si formava una spumeggiante schiuma bianca e da dove il ruscello riprendeva la sua corsa. Osservando la cascata ci si poteva rendere conto della capacità di portata e della forza della corrente: oltre, l’acqua riprendeva ad essere apparentemente calma e scorrevole, trasparente e cristallina, si poteva scorgere il fondale tinto in alcuni punti del bianco e grigio delle pietre ed in altri dei riflessi verde smeraldo e blu.
Prima di riprendere la strada del ritorno ci siamo fermati ancora qualche istante al centro di quel prato, tutto intorno c’era il silenzio assoluto, interrotto solo da qualche cinguettio, il vento sbuffava appena e si respirava i profumi sobri dei tigli, gelsi, sambuco, acacie e del fieno.
Claudio Quatrin